La forza eversiva del regista israeliano-statunitense del Bronx ha dato la luce, tra il 1972 e il 1974, al primo trittico targato x-rated della storia dell'animazione anglofona, secondo in ordine cronologico soltanto alle tre sofisticate opere erotiche di Osamu Tezuka e di Eiichi Yamamoto prodotte tra il 1969 e il 1973 sotto il progetto Animerama [1]. I film Fritz the Cat, Heavy Traffic e Coonskin - analizzati in questo articolo - esprimono, senza filtri perbenisti e socialmente accettabili dai costumi borghesi statunitensi, il decadimento degli USA come micro-cosmo florido e libero, dando visibilità agli orrori morali e carnali di una realtà prossima al collasso totale. Attraverso i tre lungometraggi, considerati tuttora i veri e propri capostipiti dell'animazione "adulta" e i semi della new wave del cinema animato contro-culturale nordamericano, Ralph Bakshi viola di certo i limiti imposti dal pensiero comune e dalla censura al medium dell'animazione, dogmi che per decenni avevano condannato l'erotismo, la violenza esplicita e l'umorismo religioso nelle produzioni statunitensi seguendo politiche e una sensibilità conservatrici, nonché fortemente repubblicane. Nei tre film manifesto del regista si possono osservare e carpire chiaramente le fondamenta concettuali della poetica anticonformista bakshiana, tuttavia tale espressione rabbiosa di rottura dello status quo non viene e non verrà mai penalizzata a livello di ricezione.
Ovviamente le opere di Bakshi lasciano interdetti sia molti addetti ai lavori, sia il pubblico generalista, ma la potenza visiva, nonché emotiva, dei suoi primi lungometraggi riesce a scardinare i cancelli della critica bigotta e a irrompere nella folta sotto-cultura che raccoglie non solo emarginati, ma anche tutti coloro che negli anni '70 già non ne possono più di un sistema di distribuzione stantio nel quale soltanto major come Walt Disney Productions e Hanna-Barbera Productions possono concedersi di arrivare alla maggior parte degli spettatori. Nel 1977, infatti, il regista riesce a realizzare un film importante quasi quanto Fritz the Cat: Wizards, il primo film d'animazione della storia del cinema a sovvertire il genere fantasy classico e ad aprire le porte alla cosiddetta "Età medioevale dell'animazione occidentale" [2]. Spinto dal discreto successo del suo primo capo d'opera, Bakshi tenterà un anno più tardi di adattare sul grande schermo Il Signore degli Anelli (1955) di J. R. R. Tolkien, fallendo tuttavia nella riuscita non tanto artistica - comunque mediocre - quanto commerciale del progetto.
Nonostante le lotte produttive e gli scarsi risultati del suo ultimo film, il regista alla fine degli anni '70 è comunque conosciuto a livello internazionale come uno dei maggiori esperti del rotoscoping, tecnica che permette di animare soggetti e sfondi ripresi in live-action concepita da Max Fleischer a metà degli anni '10 per migliorare la qualità dell'inchiostrazione su pellicola prodotta dalla Bray Productions, il primo studio d'animazione della storia.
A partire da Heavy Traffic (1973), Bakshi infatti riesce sempre a implementare con una notevole maestria - nonostante budget esigui - soggetti e silhouettes sviluppati in acetato in scenografie e fondali che cambiano natura a seconda del setting, da riprese a mano a filmati d'archivio, da illustrazioni pop art a piani d'immagine dipinti e dettagliati. Questa sua creatività estremamente improntata verso l'arte dell'espressionismo astratto porta il regista, cresciuto professionalmente in aziende come TerryToons e Famous Studios tra la fine degli anni '50 e il 1967, a concepire una forma di linguaggio cinematografico che premi innanzitutto la potenza espressiva del rotoscopio. Bakshi, dopo la parentesi fantasy, vuole inoltre tornare a raccontare New York City, cercando di completare l'antistoria tragica, eppure terribilmente affascinante, con la quale aveva descritto i suoi tanto amati quanto odiati Stati Uniti tra il 1972 e il 1974. Dopo una lunga contrattazione con Dan Melnick, presidente della Columbia Pictures, nel 1981 esce American Pop, il capolavoro assoluto non soltanto del regista del Bronx ma dell'intera storia dell'animazione in tecnica rotoscoping. Il lungometraggio si sviluppa attraverso una narrazione imponente e severamente sequenziale, estesa nella sceneggiatura di Ronni Kern fino a ricoprire quattro generazioni di protagonisti, circa 4.500 kilometri di scenografie (da New York nel New Jersey a Los Angeles in California), due guerre mondiali, 14 presidenti degli USA (da Theodore Roosevelt a Jimmy Carter) e, in totale, ottant'anni di storia americana: dal 1901 al 1981.
Se Bakshi aveva inizialmente concepito il film come un "concerto animato" [3] tramite il quale raccontare la storia degli Stati Uniti d'America, tra l'altro attraverso un punto di vista fortemente personale (quasi autobiografico come in Heavy Traffic), l'opera che invece viene distribuita dalla Columbia amplifica in modo considerevole le prospettive dell'intreccio, portando su schermo la mastodontica storia multi-generazionale di una famiglia russa scampata ai cosacchi nei primi anni del XX secolo ed emigrata successivamente a New York City. La trama si stratifica attraverso uno sviluppo lineare, mantenendosi sempre in prosa tranne che in alcune brevi sequenze introspettive, scene nelle quali si volge lo sguardo al passato, dunque alla contemplazione del proprio vissuto e del proprio bagaglio di esperienze condiviso tra protagonista, antenati e collettività sociale. La peculiarità di American Pop a livello di epopea narrativa, infatti, sta nell'analisi della comunità statunitense intrapresa attraverso il cammino individuale dei personaggi primari, una forma di studio comparato di sociologia urbana organizzato secondo una metodologia di osservazione sia verticale (vicende di singoli curate nella cronologia della storia), sia orizzontale (più punti di vista in decenni profondamente diversi a livello di usi e di costumi popolari). Data la mole spropositata di informazioni da incanalare nel racconto, la sceneggiatura non sempre riesce a rendere giustizia a eventi isolati e ai personaggi secondari, spesso tagliati fuori da un momento all'altro per ovvie esigenze di trama.
Il fil rouge che, tuttavia, riesce a rendere l'intreccio omogeneo e privo di buchi ingiustificabili è lo straordinario utilizzo della colonna sonora. Il comparto musicale del film, infatti, rappresenta tuttora una delle soundtrack non originali - ovvero una raccolta di canzoni e di brani già editi prima della produzione del lungometraggio - più riuscite della storia del cinema. La musica è la protagonista assoluta del racconto e, tramite essa, Bakshi riesce a raccontare con estrema cura le diverse decadi che hanno trasformato gli USA dall'inizio del XX secolo all'inizio degli anni '80. Il primo personaggio principale, Zalmie Belinsky, cresce nella Brooklyn dei cabaret, degli spettacoli per adulti e dei teatri a luci rosse, un ambiente pittoresco e malfamato nel quale la città stessa porta a crescere prima del dovuto, riducendo l'infanzia a pochi anni privi della propria spensieratezza. Le marce circensi, i primi temi show tunes e le big band proto-dixieland accompagnano dunque lo sviluppo di Zalmie in una New York che insieme a lui sta crescendo in altezza e in ambizione. Il percorso di vita del protagonista attraversa gli anni '10, la Prima guerra mondiale fino ad arrivare all'epoca del proibizionismo e delle prime organizzazioni criminali della Grande Mela. I tempi cambiano, e con essi la musica si trasforma nel jazz dirompente di Duke Ellington, nello scat improvvisato di Cab Calloway e negli eleganti arrangiamenti di George Gershwin.
Il figlio di Zalmie, Benny Belinsky, attraversa con il suo pianoforte l'era dello swing/shuffle per poi arruolarsi nell'esercito durante la Seconda guerra mondiale. Nella Germania nazista, per via del suo amore smisurato verso il proprio strumento prediletto, il secondo protagonista tuttavia perderà presto la vita, in una sequenza impressionabile - tra le migliori del regista - di note e di suggestioni che Roman Polansky "prenderà in prestito" vent'anni dopo al fine di realizzare la scena più famosa del suo capolavoro Il Pianista (2002). Negli USA, l'unico figlio di Benny, Tony Belinsky, cresce intanto senza padre e in una società che, soprattutto tra il periodo post-bellico e gli anni '50, si auto-compiace sempre di più. Il continuo sviluppo della tecnologia, l'avvento nelle case della televisione, la nascita del rock 'n' roll e dei primi fenomeni pop giovanili devastano il vissuto di Tony, che privo di una guida alla quale potersi appellare decide di fuggire di casa e dalla propria città, come succede in molti film di Bakshi. Il vagare del protagonista apre la visuale del racconto dalla sola New York all'entroterra del Paese, fino ad arrivare ancora più a ovest, ovvero in California. Mentre Tony vive alla giornata, gli USA si trasformano ancora e gli anni '60, prima con la beat poetry, poi con il rock e il fenomeno hippie, entrano nel personaggio principale, ora finalmente vivo e portavoce di una rivoluzione culturale - nonché musicale - che sconvolgerà presto tutta la nazione e il mondo intero.
Bob Dylan, Jefferson Airplane, The Mamas and the Papas, The Doors, Jimi Hendrix Experience prendono il possesso del comparto musicale - in parte anche visivo - del lungometraggio, narrando brano dopo brano, crisi dopo crisi, la parabola discendente di Tony, uno dei tanti sbandati tossicodipendenti scampati alla Corea e alla Guerra del Vietnam, cresciuti senza un padre, senza una bussola negli anni in cui gli Stati Uniti "aiutavano" più le nazioni europee a risollevarsi dalla guerra che i propri cittadini traumatizzati. American Pop si conclude infine con l'inizio di una nuova storia, di un nuovo Belinsky, Pete Junior, con l'esplosione di collera degli anni '70 per via del crollo del mito pacifista e neo-romantico promosso durante gli anni della psychedelia e dei messaggi di peace and love. La musica, ancora una volta, si prende il posto in prima fila: dal glam alla new wave, dall'hard rock al fenomeno punk (durante le ultime scene sono presenti anche i veri Fear con il cantante Lee Ving accreditato come Lee James Jude).
Il capolavoro assoluto di Bakshi raccoglie davvero gli USA nelle loro contraddizioni e nelle loro grandezze; tecnicamente rappresenta l'apice del rotoscoping e del compositing analogico, della combinazione di rotocalco, collage animato, effettistica visiva, computer grafica acerba, fotografia acida e allucinogena. Insieme ad Asparagus (1979) di Suzan Pitt, l'opera figura come la massima espressione artistica del medium negli Stati Uniti post-Golden Age Disney poiché racchiude in sé la necessità di un autore di narrare la propria nazione e la propria gente (ebrei emigrati dall'Europa all'inizio del XX secolo). Il regista, purtroppo, anche se profondamente ispirato, non riuscirà più a eguagliarsi nelle successive produzioni cinematografiche: Hey, Good Lookin' (1982), Fire and Ice (1983), Cool World (1992), Cool and the Crazy (1994) e Last Days of Coney Island (2015).
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APPROFONDIMENTI
[1] Silvano, Isaia (2021). Belladonna of Sadness: il messaggio degli Animerama. Animazione Orientale. daelaranimation.com
[2] Silvano, Isaia (2022). Nascita del fantasy post-moderno: da Wizards a Fire and Ice. Animazione Anglofona. daelaranimation.com
[3] Gibson, Jon; McDonnel, Chris (2008). Unfiltered: The Complete Ralph Bakshi. Los Angeles. Universe Publishing. ISBN 0-7893-1684-6.