Il "Paese del Sol Levante", da circa il 2008 a oggi, ha subìto un declino piuttosto clamoroso in fatto di qualità media delle opere animate prodotte per il cinema. Le ragioni che hanno spinto i molti studi d'animazione presenti in Giappone a livellare i contenuti dei film, a offrire sempre più fan service e a screditare chi ancora crede che l'arte del cinema possa valere qualcosa, come afferma Mamoru Oshii [1], sono principalmente causa del business in continua espansione che soffoca in partenza quasi tutti gli autori meritevoli di tale reputazione. Oltre a questo, il passaggio generazionale che in maniera sempre più marcata si fa sentire tra i "vecchi" come Shigeyuki "Rintaro" Hayashi o Hayao Miyazaki e le nuove leve evidenzia una carenza importante di tematiche originali sulle quali poter costruire lungometraggi che non sappiano di già visto. Alcuni dei registi più in voga di questi anni, ovvero Hiromasa Yonebayashi, Mamoru Hosoda e Makoto Shinkai, vengono descritti da magazine specializzati nel settore anime come "gli eredi di Miyazaki", un'espressione irritante, nonché inutile e pretenziosa, che vuole spacciare registi di buon livello tecnico o concettuale portavoce futuri di uno dei massimi maestri dell'animazione mondiale. Inoltre, risulta ancora più assurdo sentir parlare di eredi quando al massimo sono i professionisti più giovani a non avere una propria poetica originale e, dunque, a marciare sul successo di personalità come Miyazaki o Isao Takahata, scegliendo quindi di inserire nei propri film tematiche masticate da anni che riescono comunque ad attirare pubblico e a far imbonire la critica internazionale.
Proprio nelle filmografie di Hosoda e di Yonebayashi, allievi riconosciuti di Miyazaki poiché entrambi per anni dipendenti dello Studio Ghibli, si riscontrano continui rimandi, a volte ai limiti del plagio come nel caso di Mary e Il Fiore della Strega (2017), alle opere del maestro. Una valida eccezione potrebbe essere Wolf Children (2012), opera preziosa e genuinamente commovente che, tuttavia, non si discosta molto dal voler quasi forzatamente provocare il pianto allo spettatore e nella quale le ambientazioni e le atmosfere bucoliche risultano praticamente una replica spudorata di quelle de Il Mio Vicino Totoro (1988). Gli unici registi cinematografici che sono riusciti a emergere con opere davvero originali dalla metà degli anni Duemila a oggi sono Masaaki Yuasa, visionario e pazzoide produttore di veri e propri rave parties sotto-forma di lungometraggio, Naoko Yamada, artista che esprime tramite opere delicate l'estrema fragilità dell'essere umano, Takeshi Koike, allievo per eccellenza di Yoshiaki Kawajiri, e Keiichi Hara, autore che più di chiunque altro negli ultimi anni è riuscito a creare, grazie anche alla collaborazione con la storica sceneggiatrice Miho Maruo (Sazae-san, Doraemon), un collegamento poetico tra il Giappone tradizionale e quello più moderno. Hara, classe 1959 e dunque non proprio una giovane promessa, ha dovuto sudare una ventina di anni prima di poter esprimere la propria opinione nel cinema d'animazione. Dall'inizio degli anni '90, infatti, il regista supervisiona le puntate e i lungometraggi spin-off dell'anime Crayon Shin-chan, serie animata comica di culto disegnata con tratti abbozzati e caricaturali.
Il primo film tramite il quale Keiichi Hara dà prova di meritarsi un posto tra i direttori creativi più interessanti dell'animazione giapponese è Un'Estate con Coo, lungometraggio del 2007 che plasma un ponte ideale tra il Giappone del periodo Edo e quello contemporaneo. Mescolando abilmente folklore secolare e aspre critiche verso lo sciacallaggio giornalistico e verso la cinica ipocrisia dei media televisivi, l'artista - anche sceneggiatore - realizza un'opera prima che rimanda a film, come Pom Poko (1994), dove l'argomento del "ritorno alle origini culturali" risulta fortemente presente. A differenza del capo d'opera di Takahata, il lungometraggio di Hara non carica le immagini con molti riferimenti intellettuali, bensì rende la narrazione del film lineare e, purtroppo, poco attenta agli sviluppi dei personaggi principali. Sono, tuttavia, da lodare alcune scene d'impatto come la sequenza di incipit e quella all'interno del setting televisivo, entrambe piuttosto imprevedibili e impressionanti nella loro crudezza. Il primo lungometraggio originale di Hara mette dunque in scena le intenzioni del regista: un pensiero critico volto a riappacificare il tradizionalismo e il continuo evolvere del popolo giapponese attraverso sequenze che non accomodano lo spettatore. Un'Estate con Coo, infatti, si rivolge con esplicita rabbia a quella parte della comunità che durante il Novecento e, soprattutto, nel corso del nuovo millennio non ha fatto altro che denigrare le proprie origini per, invece, attendere a braccia aperte il progresso e l'occidentalizzazione.
Fin dal prologo dell'opera, il regista mette in chiaro il dolore che questa scissione culturale ha provocato nella nazione giapponese, una ferita sociologica che ancora oggi fatica a rimarginarsi.
Tre anni dopo l'uscita del suo primo e ancora leggermente acerbo film originale, Colorful consacra Keiichi Hara nel tempio dei grandi autori del cinema d'animazione giapponese. Si tratta del lungometraggio animato di genere slice-of-life più tenace e granitico degli anni Duemiladieci e, in assoluto, dell'opera animata che descrive meglio le condizioni prodromiche e le profonde cause ambientali e psicologiche del suicidio. Un vero pungo allo stomaco che, mascherato da racconto di formazione, ricrea sensazioni emotive viscerali e sequenze stilisticamente eleganti, sempre riflessive e sempre inquadrate sui temi della memoria, della morte, della redenzione e del sacrificio, quest'ultimo il vero filo conduttore tematico del regista. Colorful è, dopo La Storia della Principessa Splendente (2013) di Isao Takahata e Si Alza Il Vento (2013) di Hayao Miyazaki, il miglior film d'animazione giapponese della decade 2010/2019. Esso rappresenta un lungometraggio essenziale, mai eccessivo, mai scontato, mai facile, da non confondere con opere simili ma più emotive, meno puntuali e meno brutali come La Forma della Voce (2016) di Naoko Yamada. L'opera è acuta e riesce a intrattenere nonostante più della metà delle sequenze siano di fatto messe in scena di disperazione e di tristezza assoluta, scene nelle quali il detto "going to the west" riecheggia sempre come un monito dall'alto.
Colorful, tuttavia, anche grazie alle incantevoli musiche di Kow Otani (City Hunter, Mobile Suit Gundam Wing, Eyeshield 21, Shadow of the Colossus), emoziona facendo costantemente percepire a chi sta osservando il film una pesantezza mentale sostenibile ma perennemente presente, e in questo la capacità di Hara di saper realizzare scene dall'impatto formidabile, nonché tecnicamente graziose nella loro semplicità estetica, risulta più che mai ammirevole.
"... un film molto sincero e, soprattutto, delicato e profondo nel descrivere tutto il viaggio interiore di un'anima in un corpo suicida ad essa estraneo. Sicuramente è un film meno "melassoso" rispetto a La Forma della Voce, più schietto e "asciutto" nel descrivere l'apatia e il grigiore di una seconda vita che pian piano comincia ad interiorizzare tutto ciò che aveva somatizzato Makoto nel suo vissuto precedente, fino a ricongiungersi con lui quando comprende finalmente il valore della vita, di quelle piccole cose che ci rendono pieni. La mitologia è dunque molto posata nel suo realismo e mette alla prova l'attenzione dello spettatore che, come il protagonista, deve unire tutti i puntini che hanno portato Makoto al suicidio [...] Un film quindi tosto e duro ma profondamente pedagogico, che affronta con coraggio una tematica per nulla banale che spesso risulta essere ancora un tabù nella nostra società fatta di vincenti ed apparenza, a partire da quella giapponese iper-competitiva. Non è un caso che la chiave per risolvere questo stato d'animo distruttivo e depressivo risieda nella semplicità della vita, nell'essenza della vera vitalità che guida un individuo ad accettare sé stesso e poi tutto il micro e macrocosmo che lo circonda.
[...] questo film risulta quindi ancora più attuale che mai anche alle nostre latitudini per via della stigmatizzazione della salute mentale che porta inevitabilmente chi ha pensieri suicidi a procedere verso il suo ineluttabile destino. Per questo [Colorful] è un film di importanza davvero straordinaria - anche pedagogica - e andrebbe proiettato in tutte le scuole secondarie."
Giorgio Burani [ L'angolo di Gio | FilmTV | IMDb ], 30/10/2021
In concomitanza con la fine della mostra al Palazzo Reale di Milano del 2014 dedicata ai maestri Katsushika Hokusai, Utagawa Hiroshige e Kitagawa Utamaro, esce in anteprima nelle sale italiane Miss Hokusai (2015), il terzo lungometraggio di Keiichi Hara. La storia riprende dal manga omonimo di Hinako Sugiura le vicende vissute da O-Ei Hokusai, giovane donna piena di talento artistico e figlia di uno dei principali artisti giapponesi dello stile ukiyo-e (mondo fluttuante): genere di stampa su carta sviluppato in Giappone durante il periodo Edo, ovvero tra il XVII e la metà del XIX secolo. La trama narra i rapporti personali e familiari tra O-Ei e il celebre padre, la magnanima madre e la sorellina cieca, bambina accudita da alcune monache fuori città e visitata regolarmente dalla protagonista. Il film si sofferma su argomenti piuttosto complessi come, per esempio, la genesi dello stile artistico personale del personaggio principale, la scrupolosa descrizione della Edo (poi Tokyo) della prima metà dell'Ottocento e la focalizzazione dei profili psicologico e comportamentale di Katsushika Hokusai.
Tutti i temi che propone l'opera sono ben espressi per via sia dell'ottima regia di Keiichi Hara, sia della meticolosità adottata dalla Production I.G, studio che realizza scenografie e animazioni memorabili al fine di rappresentare la città di Edo in maniera realistica e suggestiva. Il regista, richiamando il cinema neo-realista di Kenji Mizoguchi e, a tratti, la potenza estetica di Akira Kurosawa, mette in scena una società moderna in stile bohémian in cui gli artisti vivono per dare libero sfogo alle proprie capacità, al proprio estro, vivendo nella miseria e consolandosi in case private nelle quali le yujo (donne di piacere), a cui appartiene sempre una grazia indiscutibile, sprigionano in casi eccezionali un'aura mistica che rimanda al folklore orientale più occulto e indecifrabile. "Hai una tecnica notevole, ma le tue opere mancano di sensualità" viene detto a O-Ei che, schiacciata dalla presenza - quasi sempre assente ma più che incisiva - del padre, attraversa per tutto il lungometraggio una sorta di crisi esistenziale. Tale senso di smarrimento si placa solamente durante gli incontri tra la protagonista e la innocente e dolcissima sorellina, un vero e proprio angelo che, a causa del suo handicap e della paura che il padre nutre nei suoi confronti, poiché Hokusai ha il terrore di qualsiasi malattia o sindrome, si sente condannata ad andare all'inferno, accusandosi di colpe che non le sono per alcuna ragione attribuibili.
O-Ei, tuttavia, è una vera artista: anticonformista, donna schiva e forte, determinata in ogni azione che compie e, soprattutto, è una persona di buon cuore, che non lascia di certo che la sorellina pensi di essere dannata o vittima di una maledizione a causa di un padre ipocondriaco. Il suo percorso di maturazione, sia personale che artistico, va di pari passo con il suo progressivo allontanamento dalla claustrofobica figura paterna, un uomo silenzioso, rigido ma estremamente paziente, sempre con la testa da un'altra parte. Si capisce dal film, infatti, che il reale Hokusai doveva essere un genio puro, una di quelle persone estremamente particolari, singolari e con capacità fuori dal comune che tuttavia, come spesso accade, risultano completamente distaccate dal mondo terreno che le circonda, compresa la propria famiglia. L'elemento sicuramente più riuscito di Miss Hokusai, come già accennato, è la sua messa in scena. Gli usi, i costumi, l'alimentazione, lo svago e la mentalità che caratterizzano le identità dell'opera sono proposti da Hara in dettagliate sequenze descrittive che accompagnano con classe lo sviluppo narrativo. Sapori, odori e rumori della Edo vissuta da O-Ei divengono sensibili allo spettatore grazie a una realizzazione ottimale di ogni sequenza animata sia negli aspetti tecnici, sia in quelli contenutistici. Ogni scena di carattere espositivo e illustrativo, dunque, riesce a immergere chi osserva il lungometraggio nelle strade e nelle vicende vissute dai personaggi.
In questo tripudio di elogi, tuttavia, vi sono due appunti negativi da dover argomentare, due caratteristiche che, purtroppo, non rendono Miss Hokusai un possibile capo d'opera. In alcune sequenze risulta infatti inopportuno e scadente l'utilizzo di rapidi e fluttuanti movimenti di macchina, esercizi di stile riusciti per di più in maniera forzata poiché Hara dirige in maniera statica e contemplativa quasi tutto il proprio film e, soprattutto, le scene migliori dell'opera: l'incontro con la cortigiana "dalle due facce", la metafora visiva della realizzazione del dragone, il momento di gioco con la neve della sorellina e il bambino, la visita di O-Ei al quartiere yukaku di Yoshiwara. Oltre a queste scelte stilistiche piuttosto stridenti, la colonna sonora rappresenta il vero fattore inadeguato del lungometraggio. Prima di tutto, molte musiche contemporanee distruggono letteralmente il realismo di una così ben ricostruita Edo dei primi dell'Ottocento, mentre, in secondo luogo, il j-rock, genere di rock neo-progressivo peculiare del Giappone, risulta uno stile musicale ridicolo se inserito in un contesto storico-sociale-folkloristico come quello rappresentato in Miss Hokusai. A parte, dunque, qualche caduta - anche grave - nell'omogeneità delle atmosfere, l'opera risulta interessante come contenuti e come produzione, un film nel quale Hara decide di esprimere tutto il proprio smisurato interesse verso il passato della sua nazione.
Dopo quattro anni di pausa, nel 2019 esce The Wonderland, il quarto film originale diretto da Hara. Il lungometraggio, purtroppo, risulta un gigantesco buco nell'acqua realizzato dal regista per lo studio Signal MD. Il film, oltre che a presentarsi pressoché inutile e scritto in maniera inspiegabilmente piatta e banale da Miho Maruo (sceneggiatrice di Colorful e di Miss Hokusai), rappresenta ad oggi il peggior lavoro diretto e supervisionato da Hara. Le uniche componenti buone dell'opera sono le splendide scenografie fantasy e il meticoloso lavoro impiegato per la fotografia delle immagini. The Wonderland, infatti, non ha niente a che vedere con i lavori precedenti dell'artista, non vive di una poetica autoriale, bensì di una macchiettistica riproposizione di temi scontati e insignificanti come l'evasione dalla realtà per maturare e per diventare responsabili. Keiichi Hara si rinchiude in una comfort zone di miyazakiana memoria a metà tra La Città Incantata (2001) e Il Castello Errante di Howl (2004), realizzando un film d'animazione patetico, mai coinvolgente e sviluppato in maniera tanto rocambolesca e avventurosa quanto concettualmente vuota. Il regista spreca così un'importante occasione per mettere in risalto un lato di sé più semplice e completamente slegato dai punti cardine della propria poetica, compreso quello meno intellettuale ma onnipresente del sacrificio.
Nel 2022, dopo aver cambiato studio e in seguito alla fine della crisi pandemica del Covid-19, Maruo e Hara tornano a lavorare insieme a un lungometraggio, Il Castello Invisibile, film animato tratto dal romanzo Kagami no Kojo (2017) di Mizuki Tsujimura. Sotto la dirigenza della A-1 Pictures, sussidiaria della Sony-Aniplex, i due autori portano avanti molti dei temi esposti con scarsi risultati in The Wonderland nel 2019, comprimendo la novel fantasy della scrittrice nipponica in un'opera in cui il classico letterario Alice nel Paese delle Meraviglie (1865) di Lewis Carroll si scontra con traumi e con personaggi complessi marchiati da vite più o meno travagliate. Il mondo alternativo e fantastico è anche qui proposto inizialmente come luogo di evasione dalla vera e dura realtà opprimente, tuttavia nel corso del film diviene sempre più chiaro che l'aggregazione e la creazione di legami siano il fulcro di ciò che il racconto vuole significare. In tale senso, per la prima volta Keiichi Hara, soprattutto a livello registico, cerca di tornare alla grazia di Colorful nel saper narrare senza filtri avvenimenti seriamente conturbanti, ovvero atti di violenza umana di varia natura e scalpore. La forza de Il Castello Invisibile, seppur a livello di sceneggiatura incontri in più punti forzature e un senso di smarrimento del proprio focus d'intreccio (basti pensare alla sconclusionata scansione del tempo fuori e dentro il "mondo nello specchio"), risulta l'equilibrio tra le micro-trame dei personaggi comprimari, individui caratterizzati in modo non per forza originale e, anzi, frutto di molti dei cliché comportamentali presenti negli anime odierni, tuttavia sempre messi in scena nella loro sfera caratteriale e del temperamento più precisa e spontanea possibile.
In altri termini, i protagonisti adolescenti del lungometraggio, senza avere ovviamente ognuno lo stesso screen-time, vengono resi umani tridimensionali e caratterialmente contrastanti. Non esiste, perciò, la sola macchietta o il personaggio soltanto serioso o estremamente timido. Ogni individuo è reso tale nel momento in cui esso riesce a esprimere uno dei molti lati della propria superficie comportamentale in base alla situazione che deve affrontare. Nonostante, quindi, la trama non sia né particolarmente intricata (anche e soprattutto a livello di colpi di scena), né più ricca e ricercata di alcune buone opere animate giapponesi come La Ragazza che Saltava nel Tempo (2006) o Belle (2021) di Mamoru Hosoda (opere con le quali Il Castello Invisibile condivide alcuni elementi di sceneggiatura come la "torsione temporale" o estetici come il gusto vittoriano di certi costumi e scenografie), l'ultimo - per adesso - film del regista riesce a recuperare l'autorialità persa in The Wonderland, incorporando nelle identità principali del lungometraggio i valori di sacrificio e di magnanimità che dal 2007/2010 rappresentano il fil rouge concettuale del duo Maruo-Hara.
In termini artistici, Il Castello Invisibile non appare particolarmente ispirato e le animazioni risultano a volte realizzate in low frame senza un contesto anche soltanto adeguato, portando dunque la qualità complessiva del film ai livelli di una produzione seriale contemporanea di medio livello. Le uniche animazioni visibilmente curate sono sicuramente quelle facciali, motivo per cui i personaggi riescono a risaltare la loro individualità, mentre alcuni modelli ambientali realizzati in 3D cozzano non poco con una realizzazione tecnica creata - con l'ausilio di una buona fotografia digitale - in maniera tradizionale.
Anche le musiche di Harumi Fuuki, sebbene risaltino i caratteri folkloristici normanni e celtici che appartengono al castello nello specchio, non riescono a donare una reale atmosfera distaccata e sognante al film durante le scene più concitate, risultando quindi solo una buona colonna sonora di accompagnamento senza una propria forza espressiva. Purtroppo, l'opera diretta da Hara non manifesta infine alcun guizzo artistico particolare, aggrappandosi unicamente ai personaggi del racconto della scrittrice Mizuki Tsujimura - reinterpretato da Miho Maruo - per poter rendere il proprio esercizio autoriale riuscito ed emotivamente d'impatto. Il Castello Invisibile, infatti, pur non rappresentando cinematograficamente uno dei suoi migliori film, si presenta sicuramente come uno dei suoi lavori più personali e toccanti, un ritorno alla sensibilità dell'adolescenza, all'insensatezza della cattiveria umana, alla difficoltà di vivere in un mondo pieno sia di avversità che di amore. Il regista per antonomasia dell'intensità emozionale animata in Giappone torna dunque con un film imperfetto ma fortemente efficace, accrescendo la notorietà del romanzo - già decisamente famoso e apprezzato in patria - con uno dei migliori debutti al cinema del 2022 e firmando un'opera animata piuttosto in controtendenza con i prodotti che da almeno dieci anni vengono pubblicati nel "Paese del Sol Levante": tecnicamente non si presenta molto curata ma concettualmente e contenutisticamente è sia valida che, soprattutto, autentica e personale pur non essendo originale.
Articolo modificato il 31/08/2023
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