Agli amanti di animazione seriale e cinematografica, il nome di Masaaki Yuasa fa subito drizzare le antenne. Il cinema di Yuasa è in effetti uno dei migliori esempi di come ancora oggi l'animazione sia l'unica tecnica in grado di esprimere idee precise nel modo più appropriato, perché essa è l'unico modo di inscenare situazioni e dinamiche altrimenti impossibili da esprimere con il cinema live-action. Yuasa ha dato prova più volte di saper prendere per le mani opere non sue e di trasformarle al meglio attraverso la sua animazione, che viene messa così al servizio delle qualità dell'opera che si propone di adattare. Uno degli esempi più virtuosi e intelligenti del suo metodo di lavoro è dato da Ping Pong the Animation (2014). Quando si ritrovò fra le mani la pesante eredità che veniva dalle pagine del manga di Taiyo Matsumoto, Yuasa riuscì a capire subito e alla perfezione i rischi che corre un autore quando è chiamato a reinterpretare un altro grande autore - situazione spigolosa che, tuttavia, non rappresenterà neppure un caso isolato nel corso della sua carriera. Come solo i più abili registi sanno fare, Yuasa optò per alcune scelte tecniche molto complesse per rappresentare il fumetto, che riuscirono a esaltare sia l'opera di Matsumoto che la sua personale animazione, senza snaturare nessuna delle due.
Una delle scelte stilistiche più nette e apprezzabili di Ping Pong the Animation è senza dubbio l'uso dello split screen. In che senso? Facciamo prima un passo indietro.
L'animazione di Yuasa si distingue, sin dall'inizio della sua carriera, per essere una delle poche sia in Oriente che in Occidente in grado di mettere in mostra visioni caleidoscopiche, distorte, spesso oniriche o addirittura allucinate. I modi adoperati da Yuasa sin dai suoi esordi per raggiungere questo risultato sono molteplici: prospettive del tutto fuori dai canoni e dalle regole, appiattimento tra primi piani e sfondi, linee tremolanti, utilizzo di molteplici tecniche di animazione all'interno di una singola opera, scelta delle palette che utilizzano spesso colori primari o sgargianti. La carriera di Yuasa lo ha portato quasi sempre ad approcciarsi con un grandissimo problema, specie per una persona che si esprime tramite un mezzo visivo come il cinema, vale a dire la già accennata difficoltà nell'adattare il lavoro altrui. Una gran parte delle serie di Yuasa sono infatti adattamenti di opere preesistenti, non sceneggiate di suo pugno. E come se non bastasse, più la sua carriera è andata avanti, più Yuasa si è ritrovato coinvolto in progetti e in produzioni che richiedevano la trasposizione di materiale di grandi autori con i quali è sempre complicato confrontarsi: oltre al già citato Taiyo Matsumoto, basti pensare al caso di Devilman Crybaby (2018), trasposizione in parte reinterpretata del caposaldo Devilman (1972) del maestro Go Nagai. Il regista ha sempre dimostrato una grande maestria nell'approcciarsi all'adattamento di opere altrui, infatti Devilman Crybaby non è la semplice trasposizione del capolavoro di Go Nagai, ma è il Devilman di Yuasa.
Lo stesso vale per la serie The Tatami Galaxy (2010) o per il lungometraggio a essa associato, Night Is Short Walk On Girl (2017), dopodiché si torna a uno dei prodotti meglio riusciti di Yuasa, il già citato Ping Pong the Animation. Alla domanda sul perché adattare l'omonimo manga di Taiyo Matsumoto, il regista dichiarò al tempo che il tema del "suo" Ping Pong sarebbe stato uno solo: la sofisticatezza [1]. Basta vedere il modo in cui lo show è animato per rendersi conto di quanto ciò sia vero. La serie animata è l'esempio più evidente - forse assieme al solo Mind Game (2004) - di quanto Yuasa cerchi di raggiungere quel famigerato "grado zero" dell'animazione, infatti tutta la rappresentazione gioca sul rapporto tra spazio e personaggi, sulla distorsione degli ambienti e sull'instabilità delle linee. In questo senso, il tratto utilizzato nella serie di Ping Pong è una scelta perfetta: le linee sono sempre tremolanti, i disegni sembrano a tratti infantili, mascherando dietro un aspetto semplice e quasi ingenuo un grande studio e scelte rigorose in termini di direzione artistica e di design. A questo si aggiunge un grandissimo problema fronteggiato da Yuasa, vale a dire i tempi e il budget di produzione. Come spiegato dall'art director dell'anime di Ping Pong, Aymeric Kevin, gli episodi venivano spesso ultimati nel giro di due o tre settimane, mentre per gli sfondi (di cui si occupava Kevin stesso) il tempo a disposizione era di una settimana - un tempo risicatissimo a pensarci, ma la cosa non deve stupire: queste tempistiche sono state e sono ancora spesso la prassi all'interno dell'industria animata giapponese [2].
Quando ti si parano davanti una serie di restrizioni così evidenti è la tua fantasia a dover prendere il sopravvento per innalzare il valore dell'opera e trovare delle soluzioni, e Yuasa lavora proprio in queste condizioni: da una parte l'obbligo di dover adattare un'opera che viene da un grande autore come Matsumoto, dall'altra l'esigenza di farlo in tempi ristretti e con un budget non dei migliori. A questo si aggiunge un fattore non trascurabile, vale a dire che il tema trattato è il ping pong, uno sport frenetico e senza pause, dove a farla da padrone è il dinamismo. E qui, Yuasa dichiara di aver fatto una scelta ben precisa, in contrasto non solo con le logiche del ping pong come sport, ma con tutte le sue opere precedenti: se i suoi lavori, da Mind Game a The Tatami Galaxy, sono proprio dominati da una certa frenesia, con Ping Pong il regista sceglie di distendere i ritmi e di dare solo dei rapidi scossoni alla narrazione mano a mano che ci si avvicina al climax vero e proprio. Yuasa, dunque, sceglie quasi di sguazzare all'interno dei limiti creativi nei quali è chiamato a operare. Uno degli esempi migliori è dato da alcune sequenze in CGI: quando è costretto a utilizzare la grafica computerizzata, Yuasa non si limita a mostrarcela ma sceglie di farlo con un close-up spinto al limite (come quando vengono mostrate le setole delle racchette da gioco), una scelta che fa intuire allo spettatore lo scheletro sotto la pelle della sua animazione. Per rappresentare l'animazione e il dinamismo del ping pong, invece, il regista sceglie una logica ancora più in controtendenza, ovvero portare al minimo il movimento. Si torna allo split screen.
Lo split screen è una tecnica che risale agli albori del cinema stesso. Già George Méliès adoperava un sistema di divisione dello schermo che gli consentiva di spaziare con la fantasia e di giocare con il quadrangolo visivo, ma è solo con il cinema classico hollywoodiano che si intuiscono le capacità narrative di questa tecnica e che si comincia a raffigurarle utilizzandole appieno. Uno degli esempi storici dell'uso dello split screen viene da Il Letto Racconta... (1959), che mette le cose in chiaro sin dai titoli di testa: si capisce subito che il nucleo tematico sarà la condivisione dello schermo da parte dei personaggi, condivisione rappresentata grazie allo stratagemma delle telefonate, che rimarranno da questo film in avanti uno dei modi canonici di adoperare questa scelta di stile. Andando avanti nel tempo, grazie all'evoluzione del linguaggio apportata in particolare dalla Nuova Hollywood, lo split screen comincia a essere utilizzato in maniera sempre più creativa. L'esponente migliore di questo stratagemma tecnico e teorico è senza dubbio Brian De Palma: in molti dei suoi film, lo split screen viene usato per mostrare e raccontare vicende che difficilmente si sarebbero potute esprimere altrettanto efficacemente senza. L'influenza di De Palma - senza dubbio uno dei più grandi teorici della storia del cinema - continuerà nel corso dei decenni, infatti basta pensare agli omaggi ai suoi split screen in Kill Bill: Volume 1 (2004).
Questi esempi dimostrano come lo split screen sia il modo perfetto per far coesistere diverse azioni nello stesso spazio di messa in scena, ma è solo con Yuasa che la tecnica viene adoperata per diminuire il movimento - e paradossalmente proprio per questo accentuarlo così tanto. Se infatti il ping pong è uno sport frenetico e dai ritmi serrati, il regista riesce a raccontarne il movimento portandolo volutamente al limite. Si ricorda inoltre che Yuasa si sta confrontando con il lavoro di Matsumoto e che, in questo senso, è debitore dello studio di impaginazione molto virtuoso del mangaka: è evidente, se si confrontano i lavori dei due autori, che Yuasa si rifaccia al modo di raccontare l'azione del fumetto, ma nel suo Ping Pong il regista riesce ad andare oltre. In effetti, nell'anime è quasi impossibile tenere il conto di quante volte lo split screen venga utilizzato in un singolo episodio, e si può dire che esso sia il vero leitmotif concettuale dell'adattamento di Yuasa. Non si può certo dire che sia una scelta casuale. Al contrario, il regista decide che il nucleo tematico della sua opera, dal punto di vista visivo, debba essere tale tecnica, e dunque la usa per tutto: mostrare una reazione, mostrare una progressione temporale, raccordarla con un movimento di macchina, introdurre un personaggio per poi "ricomporre" lo schermo, e chi più ne ha più ne metta. In questo senso, il messaggio di Yuasa è chiaro: adattare una grande opera di un altro autore è possibile, purché si capiscano alla perfezione le esigenze del proprio mezzo espressivo. E perché no, purché ci si prepari a correre anche qualche rischio.
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