"L'animazione non è un genere, è un mezzo. E può diventare qualsiasi genere. Credo che spesso la gente non lo capisca." Brad Bird
Qualcuno potrebbe domandarsi perché iniziare proprio con una citazione di Brad Bird (regista de Il Gigante di Ferro e dei due Incredibili della Pixar) che sottolinea la versatilità del mezzo animato quando l'oggetto della discussione dell'articolo non è altro che il film celebrativo di uno dei più grandi studi di animazione mai esistiti. Presto detto: se è vero che l'animazione è una scatola dei giocattoli dalle potenzialità illimitate, è altrettanto vero che un certo tipo di racconto animato che oggi il pubblico percepisce come "tradizionale" è nato e cresciuto proprio grazie al lavoro, seminale e rivoluzionario al tempo stesso, degli artisti e dei visionari dei Walt Disney Animation Studios. Quella che è stata definita spesso come una "fabbrica di sogni" e che prima di tutto è stata fucina di alcuni dei talenti più raffinati del secolo scorso contando animatori, disegnatori, registi e scrittori, ha celebrato il suo centesimo anno di vita proprio l'anno scorso, proponendo svariate iniziative tutte inscritte nei suoi molteplici campi di interesse (dai parchi al merchandise, dalle pubblicazioni editoriali ai contenuti per lo streaming e così via). Negli ultimi anni sembra però che il colosso dell'entertainment stia faticando parecchio a ritrovare il suo focus su quello che, in fin dei conti, è stato il business che l'ha portato alla ribalta quasi un secolo fa: il cinema.
La pandemia ha azzoppato l'industria, portando le case di produzione di ogni dimensione a virare sullo streaming nei modi più vari (c'è chi ha aperto la propria piattaforma come Disney e chi invece ha preferito dare i propri prodotti su licenza altrove), e su questo nessuno ha da ridire; è anche vero però che l'emergenza è ormai finita e, mentre altri attori della scena si impegnano in ogni modo per cercare di reinventare l'approccio alle produzioni e la fruizione di contenuti audiovisivi di ogni tipo, la Casa di Topolino appare impantanata in sistemi ormai vecchi e ostinata in una testardaggine manageriale che rasenta la cecità, anche se, a dirla tutta, l'atteggiamento dello studio non è del tutto incomprensibile. L'eredità artistica della Disney è di ormai cento anni ed è stata capace di imporsi sulla storia del cinema come creatrice di un canone che, nel corso della sua esistenza, è stato perfezionato, riproposto, variato, decostruito e anche schernito con grasse risate prima da concorrenti livorosi e, in seguito, dalla stessa compagnia per cercare di scrollarsi di dosso un'aura ingombrante e fuori dal tempo. Da ormai più di un decennio, con l’avvio della cosiddetta Revival Era iniziata nel 2009 con La Principessa e Il Ranocchio ed estesa fino al presente, Disney ha disperatamente cercato di riguadagnare quel prestigio perso nei primi anni del 2000 a causa di problemi interni alla propria direzione amministrativa e di alcune scelte produttive certamente non lucide (adombrata, inoltre, dai successi di Dreamworks e di Pixar), attuando un vero e proprio percorso di restaurazione.
Percorso che ha portato alla realizzazione di alcuni dei film più profittevoli e pubblicamente riconosciuti mai creati dallo studio come i due capitoli di Frozen, Zootropolis e Oceania ma che purtroppo ha dato vita anche a operazioni dall'efficacia discutibile come Raya e L'Ultimo Drago, Strange World e, appunto, Wish. Un'opera nata per festeggiare con tutti i crismi il traguardo centenario ma che, purtroppo, presenta tutti quei problemi che hanno caratterizzato le ultime produzioni Disney e che si possono ricollegare ad una singola matrice: la mancanza di una vera e propria visione. Ma cosa è andato storto?
Sogni sbiaditi...
In una piccola isola del Mediterraneo sorge il regno di Rosas, governato dal Re Magnifico che controlla e amministra i desideri del popolo realizzando però solo quelli giudicati (da lui stesso) come innocui per il benessere dei sudditi. Sarà la giovane sognatrice Asha, aiutata dai suoi amici e dalla magia di una stella, a svelare le contraddizioni dietro la reggenza di un monarca totalitario e ossessionato dal controllo.
Nella sinossi del film ritroviamo tutte le sue coordinate narrative, stilate da Jennifer Lee (sceneggiatrice, regista e dal 2018 direttrice creativa dei WADS) e da Allison Moore e che convergono insieme in un unico punto: la celebrazione del potere unico della creatività. Un nucleo centrale abbastanza scontato ma al contempo ingombrante per un film che si fa alfiere dei festeggiamenti di un patrimonio artistico, come già detto, imbattuto per importanza e imponenza nella storia del medium e non solo. Quello che fin da subito è stato detto di Wish è che avrebbe riproposto una struttura narrativa più classica, cercando di celebrare le produzioni della Golden e della Silver Age disneyane (tra anni '30 e '50) introducendo al tempo stesso percorsi ormai noti nei lungometraggi animati americani contemporanei e già abbracciati in passato dalla stessa compagnia, come la presenza di una protagonista ribelle pronta a sfidare un potere immenso che sopprime e limita l'espressione del popolo [1]. Una fusione che a prima vista non sembrava minimamente destinata al fallimento ma che si è ritrovata ingarbugliata, suo malgrado, in una matassa di pigrizia e di scelte sbagliate. Prima fra tutte quella di rendere Asha una protagonista fastidiosa e immune al cambiamento, contravvenendo innanzitutto a una buona scrittura e soprattutto impedendo al pubblico di immedesimarsi nella ragazza e nel suo (inesistente) percorso, fallendo così uno degli obbiettivi primari di una produzione virtualmente diretta al pubblico più vasto che si possa immaginare.
Nulla di più lontano, insomma, da quello che abbiamo potuto vedere in altre opere uscite lo stesso anno di Wish, come lo Spider-Man: Across the Spider-Verse di Sony Pictures Animation o Nimona di Netflix, entrambe estremamente efficaci nella messa in scena di protagoniste profonde e convincenti come Gwen, prototipo ideale dell'adolescente impegnata a lottare strenuamente in un mondo vecchio e intriso della sopracitata autorità asfissiante e repressiva, o la stessa Nimona, contenitore di qualsiasi tipo di discriminazione legata alla propria identità. La costruzione di caratteri femminili complessi è da tempo al centro di un dibattito acceso e concentrato particolarmente sull'animazione cinematografica statunitense che, in passato, ha saputo proporre vere e proprie protagoniste combattenti (Disney in primis con gli esempi di Mulan, Ariel o Pocahontas e Pixar con la Merida di Ribelle) e che ora si ritrova sistematicamente ferma al punto di partenza, con personaggi piatti, eccessivamente forti e privi di sviluppo perché già perfetti. Basti pensare a Elsa, personaggio secondario nel primo Frozen e protagonista assoluta di un secondo capitolo che, a conferma della teoria e proprio nel film a lei dedicato, finisce per diventare una bambola svuotata di prospettiva in preda a una serie di eventi causali e approssimati. Proprio la stessa struttura svogliata di Frozen II si ripropone in Wish, film in cui l'intreccio sembra andare avanti per inerzia e senza una direzione precisa, solo per inscenare dei tributi sterili all'universo narrativo disneyano e arrivare in fretta alla canzone successiva.
L'esempio più efficace della fallacia che caratterizza la scrittura del film si trova in quello che, in teoria, dovrebbe essere uno dei suoi momenti topici, quello della cosiddetta "I want song", ovvero la canzone attraverso cui il o la protagonista esterna i suoi desideri, un vero e proprio must di qualsiasi musical made in Disney. Il brano in questione, This Wish, cantato proprio da Asha, che nella versione originale ha la voce di Ariana DeBose e in italiano quella della cantante Gaia, risulta totalmente fuori posto proprio per l'assenza di coerenza tra e nei passaggi precedenti, producendo dunque nello spettatore la sensazione che sia stato inserito più per dovere che per assolvere a una qualsiasi funzione narrativa. Ironicamente, il fallimento della canzone rispecchia alla perfezione l'intera struttura di Wish, ovvero quella di un film che cerca disperatamente di stupire in ogni modo ma che finisce a discutere con il riflesso di sé stesso, perso nell'illusione di uno specchio che restituisce un'immagine noiosa e stantia; perdutamente innamorato delle sue idee da dimenticarsi di testarne la validità, soprattutto attraverso uno degli elementi che da più di un secolo definisce l'efficacia di questo tipo di storie: l'antagonista.
Se Asha è una protagonista di rappresentanza, vuota e priva di mordente, Magnifico è una minaccia uscita direttamente da Monty Python e Il Sacro Graal, ma senza lo stesso carisma o la stessa autoironia del film del collettivo comico britannico.
Le ispirazioni, anche in questo caso, sono talmente lampanti da risultare fastidiose se messe a paragone con il risultato finale [2]: citare apertamente un impianto visivo che rimanda in continuazione alla Regina di Biancaneve e I Sette Nani e a Malefica de La Bella Addormentata Nel Bosco funziona solo se il personaggio creato per sorreggere una tale eredità risulta altrettanto minaccioso. I modi di Magnifico risultano invece troppo infantili e lontani anni luce anche solo dall'ombra di personaggi come Ursula o Jafar, sedotti come lui dal potere ma capaci, a differenza sua, di rappresentare un'effettiva minaccia per i rispettivi eroi. Il re è un villain da TikTok, un influencer ottuso impegnato a gettare fumo negli occhi per mantenere intatta la sua reputazione. Non sorprende quindi che proprio il social di ByteDance sia pieno di video con protagonista il sovrano, tra semplici spezzoni del film e commenti più o meno lusinghieri sulla sua figura. Anche in questo caso l'esemplificazione più pratica di questo atteggiamento da drama king si trova senza dubbio in una canzone, ovvero This Is The Thanks I Get?! che, oltre a essere diventata virale appunto sui social, anche tramite una imbarazzante cover collettiva fatta da content creator di tutto il mondo, altro non è che un inno all'autoindulgenza, alle giustificazioni e ai piagnistei di un ricco e viziato bambino che non riesce a guadagnare le simpatie di tutti. Alla fine, in mezzo ai pallidi simulacri dei sette nani capovolti maldestramente e infusi nei sette comprimari amici di Asha e a una spalla comica davvero inutile e petulante come la capra Valentino, l'unico personaggio interessante rimane proprio la stella dei desideri.
Andata incontro a diversi cambiamenti sul piano narrativo e artistico, inizialmente pensata come una sorta di principe mutaforma e interesse romantico di Asha [3], Star si è trasformata in una stella dal design familiare, si pensi in prima istanza agli sfavillotti del franchise di Super Mario Galaxy, e dal comportamento gioviale e imprevedibile. In una linea ideale e su dichiarazioni riscontrabili dello stesso co-regista Chris Buck, Star incarna tutti gli omaggi che il film vorrebbe tributare a Walt Disney, qui trasfigurato appunto sotto forma di un gomitolo irrefrenabile di creatività e magia [4]. In più, le espressioni facciali della stella ricalcano quelle dei primi corti di Mickey Mouse a colori, come The Band Concert (1935) e Thru the Mirror (1936), accostando ulteriormente Walt alla sua creatura più famosa. Un'intenzione lodevole che racchiude non solo un significato potente ma anche una delle poche intuizioni brillanti della produzione (forse l'unica), vista anche la coerenza stilistica interna al personaggio e le sue animazioni curate e soddisfacenti.
... e desideri disattesi
Dalla seconda metà del decennio passato, con film come The Peanuts Movie (2015) e Spider-man: Into the Spider-Verse (2018), l'animazione cinematografica americana in 3D ha cominciato a ibridarsi con altre forme di sperimentazione tecnica legate soprattutto alla fusione tra il medium dell'animazione e quello delle arti visive tout court.
Da quelle coraggiose iniziative è nata una corrente che non accenna a fermarsi, volta a ribaltare la linea di pensiero secondo cui l'animazione tridimensionale al computer sia sterile e fredda, proponendo visioni nuove che spingono il limite del linguaggio animato sempre più in avanti, verso orizzonti non ancora mappati. Dopo Blu Sky e Sony Pictures Animation, si sono uniti al gioco altri attori importanti come Dreamworks con The Bad Guys (2022), Puss in Boots: The Last Wish (2022) e The Wild Robot (di prossima uscita), Netflix con Klaus (2019) e Nimona (2023) e Nickelodeon con Teenage Mutant Ninja Turtles: Mutant Mayhem (2023), mentre sul fronte seriale abbiamo potuto godere di perle rare come Arcane di Fortiche, che ha saputo rivoluzionare lo storytelling delle serie animate in CGI. In uno scenario del genere è più che naturale guardarsi intorno e capire come Disney abbia scelto di declinarsi o, più appropriatamente, reggere il colpo della concorrenza. E a dire tutta la verità quel piccolo gioiello di Paperman, datato 2012 e diretto da John Kahrs, sembrava promettere grandi passi avanti per la casa di Burbank grazie alla innovazione portata dalla tecnica adottata per la propria messa in scena. Il Meander Animation Tool, questo il nome del programma sviluppato internamente agli studios e utilizzato oltre che in Paperman anche in Feast (2015), in alcune sequenze di Oceania (2016) e in altri progetti, permette di integrare alla ben consolidata pipeline della CGI un approccio intimamente legato all'animazione tradizionale in 2D [5].
L'utilizzo più lampante del tool si può notare nella costruzione dei personaggi del corto del 2012, portati in vita tramite i più classici modelli 3D ma rinvigoriti dal tratto manuale degli animatori, che ne disegnarono a mano, pur sempre utilizzando strumenti digitali, i dettagli del volto e soprattutto i capelli. Tre anni dopo, in Feast, Meander fu usato anche per la gestione delle variazioni fisiche, quindi vettoriali, della luce. Insomma quella stessa voglia, che oggi traina l'industria, di appianare delle divergenze che erano ormai diventate ideologiche oltre che tecniche tra animazione in CGI e tradizionale in 2D trova parte delle sue radici nella WDAS di ben dodici anni fa. Al di là dell'evoluzione tecnologica, la fame di sperimentazione della casa di Burbank non si è mai effettivamente spenta, eppure è rimasta purtroppo confinata unicamente alle antologie di corti come la splendida e fondamentale CortoCircuito, o ShortCircuit (2020), in cui piccoli team di animatori sono stati lasciati liberi di esplorare qualsiasi tipo di assurdo mix tra animazione e costruzioni visive parallele, dalla pura CGI al fumetto passando per le illustrazioni e la street art.
Viste le tante e promettenti premesse, come spiegare il contorto macello visivo in cui Wish si è tuttavia ritrovato senza possibilità di scampo? Bisogna innanzitutto ammettere che il periodo di produzione del film non è certo stato dei più sereni, tra i continui cambi di dirigenza interni alla compagnia, scandali di proporzioni più o meno importanti, dall'abbandono di John Lasseter come direttore creativo della compagnia alle controverse posizioni prese nel 2022 sulla cosiddetta legge "Don't say gay", il lancio turbolento di Disney+ e ovviamente la pandemia, che ha costretto tutti, studi cinematografici compresi, a rivedere le proprie priorità e a ripensare il proprio lavoro.
Per questi motivi e per i sopracitati cambiamenti legati all'industria cinematografica animata statunitense, la compagnia ha lentamente perso lo scettro del comando conquistato durante la Revival Era, trovandosi smarrita e senza più una direzione, finendo per infondere tale confusione proprio nel film che avrebbe dovuto idealmente innalzare ancora una volta lo studio al di sopra dei vari competitor. Il look confuso di Wish è ravvisabile ovunque, dai modelli alle animazioni passando per gli sfondi e i VFX e se, inizialmente, per stessa ammissione degli animatori, la produzione doveva seguire il flusso del contemporaneo integrando dosi massicce di 2D e scene animate in low frame "à la Spider-Verse", il prodotto finale è risultato completamente diverso. Per evitare di ricadere nelle stesse scelte della concorrenza, l'approccio scelto per Wish trova le basi nelle produzioni Disney old school - in più di un'intervista Jennifer Lee cita La Bella Addormentata nel Bosco - ricordate e celebrate ancora oggi per le proprie forme armoniose, gli sfondi barocchi e le animazioni dettagliate e a volte anche molto lente perché lunghe, basti pensare alle carrellate presenti in opere come Biancaneve, Fantasia e Cenerentola. Cercando di mantenere i primi due punti, ovvero le forme dolci e i gli sfondi dettagliati, e capovolgendo completamente il terzo, proponendo infatti un'animazione dei personaggi schizofrenica e fastidiosa, il film finisce per comunicare una sola idea precisa: la mancanza di coraggio da parte dello studio nel perseguire una strada diversa da quella degli ultimi dieci anni.
I tanto citati sfondi risultano anonimi per mancanza di una costruzione scenica che li sfrutti per davvero, privando così non solo il quadro di un qualsiasi senso di profondità, bensì anche i personaggi della propria organicità dato che i modelli appaiono renderizzati in un modo che li fa sembrare appartenenti a un'altra produzione e piazzati sui vari background del film per errore. Tolti alcuni effetti visivi e particellari tra cui quelli legati Star e a Magnifico (in quest'ultimo caso, inaspettatamente ispirati), l'illuminazione delle scene appiattisce tutto ancora di più e in alcuni segmenti addirittura asciuga le ombre. L'atteggiamento pavido della produzione è riscontrabile anche nel character design che accomuna quasi tutte le opere della Revival Era, di chiara derivazione keaneiana (da Glen Keane, artista rivoluzionario attivo nella compagnia dalla fine degli anni '70 fino al 2012 e conosciuto soprattutto per il lavoro svolto durante il Rinascimento Disney) e adottato in questa occasione per l'ennesima volta senza alcuna variazione sostanziale. Se per certi versi sembra logico celebrare un immaginario visivo tanto vasto e multiforme attraverso uno degli stili più riconosciuti e interni a quello stesso immaginario, la scelta appare al contempo inevitabilmente sterile e fine a sé stessa se confrontata con la tanta paventata innovazione che Wish avrebbe dovuto portare dentro e fuori la compagnia. Nel mezzo di questo triste risultato estetico, uno dei personaggi che mantiene salda una certa organicità è Star, pensata e animata come un'applicazione pratica di uno degli esercizi più comuni e basici del mestiere dell'animare: la palla che rimbalza.
Star vola, salta, scatta disegnando traiettorie circolari senza freni ed è, semplicemente, piacevole da osservare e studiare sia come personaggio che come oggetto di scena catalizzatore di effetti visivi suggestivi e ben congegnati, dato che probabilmente si tratta dell'unico elemento del film imbevuto di spirito e di iniziativa. Per quanto dunque ci si possa interrogare sulle decisioni giuste, su quelle sbagliate e su quelle fallimentari, la mancata efficacia di Wish si nasconde in due grandi e lampanti verità: l'assenza di una visione concreta e la scarsa direzione in un progetto che non solo non riesce a celebrare nulla ma, anzi, compie lo stesso giro dei remake in live action dei Classici e ricorda al pubblico come e perché gli WDAS siano stati grandi in passato e come e perché oggi fatichino a esserlo nuovamente. Perché, riallacciando il discorso a Brad Bird, l'animazione non è solo una liberazione visiva ma anche - e forse soprattutto - narrativa. È inutile se non controproducente continuare imperterriti a perseguire il fantasma di un racconto vuoto, piuttosto che comprendere e abbracciare il cambiamento intorno a sé, per ridare linfa vitale a uno studio che ha già dimostrato più volte di sapersi reinventare, se vuole. Ironicamente, i risvolti controversi dei desideri e la critica ai sognatori ciechi che non si assumono le proprie responsabilità hanno sempre fatto parte della produzione della casa, andando a forgiare un approccio che può essere riassunto con l'iconica espressione "fai attenzione a quel che desideri". Questo monito la Disney sembra averlo dimenticato da tempo e, inevitabilmente, quando dimentichi ciò che sei stato difficilmente riesci a capire cosa vuoi essere.
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APPROFONDIMENTI
[1] AA.VV. (2023). Disney's Wish Creative Team Discusses the Movie's Throwback Look and Powerful Message. Animation Magazine. animationmagazine.net
[2] Tyrrell, Caitlin (2023). Wish Interview: Jennifer Lee On the Movie's North Star & Magnifico's Motivation. Interviews. screenrant.com